Un gruppo di partigiani sale alla Gera nella primavera del 1944, sotto la guida del capitano Giacinto Lazzarini, dopo i tragici eventi del S. Martino, mentre don Folli si trova già in carcere, ospitati in una cascina di proprietà della famiglia Garibaldi. All’inizio sono solo due o tre, poi vanno via via aumentando. Ci sono Elvio Copelli e Flavio Fornara di Voldomino, Lugi Ghiringhelli di Luino, Alfredo Aime di Germignaga e Giacomo e Giampiero Alberatoli di Castelveccana. Ai primi partigiani si aggiungono i componenti di una squadra di fascisti acquartierata all’Antisettica di Voldomino: sentono aria di bruciato e preferiscono schierarsi sul versante opposto, in previsione di una imminente ed irreparabile caduta del regime. Tra quelli dell’Antisettica c’è anche il Rosato, il presunto traditore. Alla Gera i partigiani tornano solo la sera per dormire. Durante la giornata raggiungono delle postazioni prestabilite per intraprendere azioni di disturbo o di sabotaggio. Anche il Lazzarini trascorre la notte con la moglie Angela, ospite in casa Garibaldi.
«Ragazzi miei, io sono preoccupata per voi, più che per me» va ripetendo Maria Garibaldi. «Non preoccupatavi, mamma Maria, presto arriveranno gli Americani e anche noi saremo liberi!» 10 Agosto 1944: tre partigiani della Banda Lazzarini si presentano sulla porta di casa del podestà di Brissago Cesare Bonfiglio: «Abbiamo fame, anche noi come tanti altri suoi amici vogliamo delle tessere annonarie false, altrimenti…!» Colto sul vivo, il podestà monta su tutte le furie: «Vi insegnerò io, banda di delinquenti come si fa a stare al mondo. Vi denuncerò al supremo comando e vi farò ammazzare come cani rognosi!». L’atmosfera diventa incandescente e da un fucile parte una pallottola che colpisce in pieno petto il Bonfiglio. Il podestà stramazza a terra mentre la gente accorre da ogni parte del paese. Ai partigiani non resta che darsela a gambe, ma il loro destino da quel momento è segnato. 21 agosto 1944: Carlo Bollini, responsabile del servizio annonario di Luino, capitano della Brigata Nera, presidente dell’Opera Nazionale Balilla, sta rientrando a casa. Si è diffusa la notizia che ha in tasca un elenco di persone coinvolte nell’attività partigiana: la fine per il movimento di liberazione. La bicicletta arranca lentamente sulla strada sterrata in direzione di Bedero. Giunto ad una curva, dal folto della boscaglia sbuca il commando partigiano, incaricato di giustiziarlo. Carlo non ha neppure il tempo di urlare la sua irrefrenabile disperazione: trascinato nelle trincee di Germignaga, viene fucilato senza tanti preamboli. Inizi di ottobre 1944: nei pressi della Gera si aggira un individuo sospetto. «Chi sarà mai?» Si domandano i partigiani di guardia. In un batter d’occhio lo circondano, lo strattonano e lo costringono a sputare il rospo. «Che ci fai da queste parti? Che vuoi da noi? Chi ti manda?» Si tratta del brigadiere della polizia ausiliaria Severino Gallo. Adduce scuse poco convincenti, si scioglie in smancerie e in promesse che non lasciano presagire nulla di buono. «Sei deciso a disertare? Dimostra coi fatti la tua intenzione, ma bada, non sgarrare, altrimenti saranno guai!». Severino Gallo, giura e spergiura, ma quegli uomini, troppo abituati a dar peso ai fatti anziché alle parole, non lo mollano un istante. Come volpi notturne lo tallonano e non si sbagliano. Raggiunto il primo telefono di Voldomino, Severino Gallo consuma il suo tradimento. Ripreso e trascinato a viva forza, verrà fucilato oltre il Margorabbia, nella tristemente famosa Valle della Morte. Durante l’esecuzione rimane però contuso accidentalmente anche Flavio Fornara. Il sangue fuoriesce a fiotti dalle sue ferite. Che fare? Una soluzione forse c’è, sì, il dottor Ragusa, chiamato segretamente dalla Gina Valmaggia di Voldomino, incurante di ogni pericolo, in casa sua. Un nemico insidioso contro cui combattere è però la fame. Il pane non manca, perché la famiglia Valmaggia lo fa recapitare ogni giorno. Anche il Comitato di Liberazione fornisce loro qualche soldo per acquistare viveri di prima necessità e mamma Maria spesso allunga il brodo del minestrone per poter offrire almeno un piatto caldo a quei poveri ragazzi, nascosti nel fienile della cascina. Ma per dei giovani esuberanti, impegnati in estenuanti fatiche e lunghe marce sulle montagne ci vuole ben altro. In alcuni momenti divorerebbero anche le gambe dei rozzi sgabelli sui cui stanno seduti. Si moltiplicano così le incursioni ora ai danni dei Berranini di Voldomino, ora del Dopolavoro Ferroviario di Montegrino e non ultima la scorribanda nel pollaio di don Bardella, fondatore dell’Educandato di Roggiano, sospettato, a ragione o a torto, di simpatie verso il regime fascista. 17 settembre 1944: durante una delle consuete scorrerie notturne, i militi delle Brigate Nere di Luino, messi sul chi va là da qualche ben informato, attendono al varco il Lazzarini ed i suoi uomini. Il bersaglio stabilito è il capitano. Le pallottole fischiano a distanza ravvicinata: ormai Lazzarini è in trappola, ma nel momento cruciale, il partigiano Aime si getta in mezzo alla mischia facendogli scudo con il proprio corpo. Lazzarini riesce a dileguarsi nella penombra, ma il giovane cade rantolando, col volto riverso tra l’erba folta del prato
«Duilio, diglielo tu al capitano Lazzarini. Qui a Voldomino e non solo, in troppi sono al corrente della cosa. Devono andarsene al più presto, debbono fuggire in Svizzera, stanno rischiando grosso!» Duilio Garibaldi, marito di Maria e padre di Rosetta e di Lina, era un antifascista della prima ora, un uomo tutto d’un pezzo che non aveva mai permesso alle sue figlie di indossare la divisa di piccole italiane. Aveva pertanto accettato di buon grado, insieme alla sua famiglia di collaborare con don Folli, per favorire l’espatrio di una schiera sempre più numerosa di perseguitati politici, di Ebrei, di oppositori al regime fascista. E non si era tirato indietro neppure davanti a questa nuova spericolata avventura, propostagli dal comandante Lazzarini. Ma ora il gioco stava diventando di giorno in giorno più pericoloso. Se fosse stata accertata la sua responsabilità in questa faccenda, per lui sarebbe stata la fine, ma quello che più lo angosciava era il pensiero che sarebbero andate di mezzo anche la moglie e le figlie. «Prima che succeda un disastro, capitano, cerchi un altro posto, non glielo diciamo per vigliaccheria o per lavarcene pilatescamente le mani, ma abbiamo tanta paura per noi e per voi». Questo l’esordio dell’accorata esortazione di mamma Maria e di papà Duilio fatta in quella sera di ottobre, dopo essersi più volte consultati tra loro sull’opportunità di un tale intervento. «Non temete, sapremo difenderci adeguatamente!» risponde il Lazzarini, ma Duilio insiste: «Vi sorprenderanno, saranno ben equipaggiati ed organizzati: di sicuro non saranno un gruppo sparuto. Ci ripensi, capitano, non metta a repentaglio la vita di questi ragazzi!». Le parole accorate di quell’uomo che aveva dimostrato in ogni circostanza una disponibilità incondizionata smuovono finalmente l’interlocutore. «Va bene, domani saliremo ai Bedroni, sopra Montegrino, e vedremo se sarà possibile sistemarci nelle trincee della linea Cadorna». Ecco, ora bisognava solo attendere che quella pioggia maledetta che non dava tregua né di giorno né di notte cessasse finalmente e che un barlume di sereno agevolasse la non facile operazione di trasferimento. Ma il cielo sembrava una plumbea cappa percorsa da nubi foriere di una pioggia insistente e continua. I partigiani, scarsamente coperti e spesso con gli abiti infradiciati, nel fienile si stringono l’uno accanto all’altro per scaldarsi. «No, nelle trincee dei Bedroni, ridotte a sconnessi camminamenti dove l’acqua ha invaso ogni angolo più riposto, sarà impossibile rifugiarsi durante la notte!» Questo il verdetto senza appello della ricognizione effettuata dal Lazzarini e dai suoi uomini di scorta. «L’unica alternativa potrebbe essere il S. Antonio: lassù forse troveremo qualche cascinale più sicuro, ma in queste condizioni la salita non sarà certamente facile. Tuttavia domani dovremo tentare, e che Dio ce la mandi buona!». Alle prime luci dell’alba, il comandante Lazzarini lascia la moglie in casa Garibaldi ed entrato con passo deciso nella cascina della Gera, scuote uno dopo l’altro quel groviglio di corpi avvinghiati nel torpore di un sonno che il freddo ha reso faticoso e agitato. «Coraggio, ragazzi, alzatevi, non è prudente trattenerci ancora qui!» Alcuni rispondono prontamente all’appello, altri indugiano. Sono stanchi ed infreddoliti, temono di non farcela ad affrontare quella nuova incerta impresa. «Rosato, tu monterai di guardia e guai a te se non sarai lesto nel segnalare ogni movimento sospetto!» Rosato promette sul suo onore, rassicura il capitano, ma a poco a poco le palpebre gli si chiudono e ricade in un sonno profondo..
Sono circa le 7.15 di quel tragico 7 ottobre 1944. Lo scoppio di due bombe a mano sul tetto della casa sveglia di soprassalto la famiglia Garibaldi. Che cosa sta succedendo? Mamma Maria, alzatasi di buonora con il marito Duilio che deve recarsi al lavoro lancia l’allarme: «Rosetta, Rosetta, hai sentito? Scendi subito e chiama la signora Lazzarini». In casa però, oltre alla moglie del Lazzarini, c’è la Dolores Bodini, la fidanzata del partigiano Zamberletti ed il fratello di quest’ultimo. Sarti entrambi, sono saliti alla Gera con l’intenzione di confezionare nuovi pantaloni invernali per i partigiani, prima dell’approssimarsi dell’inverno. In camera con il fratello dello Zamberletti c’è anche Flavio Fornara, ferito alla spalla nello scontro a fuoco di cui abbiamo parlato e medicato dal dottor Ragusa in casa Valmaggia. Mamma Maria, venuta a conoscenza dello stato di salute del povero ragazzo, volendo alleviare le sue sofferenze, dal momento che la casa disponeva di molti locali, aveva detto: «Non lo lascio dormire per terra in cascina, venga qui da noi a trascorrere la notte». Dopo la deflagrazione sul tetto, Maria sale attraverso la scala interna, pensando di poter agevolare dalla porta esterna la fuga del ragazzo ferito, la cui presenza potrebbe costituire un pericoloso atto di accusa per complicità. Non ne ha però il tempo, perché i fascisti hanno già sfondato tutti gli usci. Rosetta ed Angela Lazzarini si precipitano giù dalle scale e sono subito trascinate da una squadraccia di fascisti, ancora in camicia da notte, nella cucina grande, insieme a mamma Maria ed alla Dolores. Intanto Flavio Fornara e lo Zamberletti vengono prelevati direttamente dalla camera al piano superiore. Il capitano della Guardia Nazionale Repubblicana, con un’espressione truce, incomincia la sua incalzante requisitoria, sottoponendo i presenti ad uno stringente interrogatorio, inveendo pesantemente contro di loro ed urlando come un pazzo: «Disgraziate famiglie che date alloggio a questi delinquenti! La stessa sorte che subiranno loro sarà riservata a voi!». Rosetta trova il coraggio di controbattere: «Salvate la mia mamma, vi prego, non importa quello che farete a me, ma salvate la mia mamma!». Dopo una mezzora, in lontananza, nei pressi della cascina, si odono distintamente degli spari: quattro partigiani vengono immediatamente fucilati, senza una minima parvenza di processo. Il commando fascista è guidato da uno dei fiancheggiatori della Banda Lazzarini, un certo Aldo Chiosi che, opportunamente torchiato il giorno precedente, aveva vuotato il sacco. Attraversato con un camion il ponte del Brich, che congiunge le due sponde del Margorabbia, i fascisti erano saliti sotto la Maina e dalla strada della Baggiolina, direttamente dai boschi e dai prati. Sarebbe stato più che facile scorgerli, ma il Rosato, incaricato di sorvegliare la postazione partigiana della Gera, non se n’era accorto. S’era addormentato? Era larvatamente complice di quell’infame operazione? Non lo sappiamo. Sta di fatto che il 30 aprile 1945, mentre in piazza Risorgimento a Luino si sta celebrando la festa della liberazione dall’oppressione nazi-fascista, tra la folla si fa largo un uomo, con un mazzo di fiori tra le mani, destinato alla moglie del Lazzarini. Non c’è dubbio: è il Rosato. Appena il comandante lo scorge, ordina senza indugio: «Uccidete quell’infame». Il Rosato, falciato da una granata di colpi, cade a terra a ridosso del muro di cinta del parco Ferrini, dove rimane insepolto per parecchi giorni. Sorpresi dunque nel sonno, i partigiani della Gera, vengono subito fatti scendere nel cortiletto antistante la cascina. Quattro di loro, Giacomo Albertoli, 18 anni, studente di Caldé, Alfredo Carignani, 23 anni, impiegato delle Ferrovie di Lucca, ma domiciliato a Luino, Pietro Stalivieri, 26 anni operaio di Bosco, Carlo Tapella, 29 anni, carrettiere di Samarate, sono messi al muro. «Un prete, concedeteci almeno un prete che possa assisterci prima di morire!» La risposta di quelle belve selvagge è una pioggia di proiettili che li abbatte come cedevoli spighe in un turbine estivo. I loro corpi giacciono abbandonati per alcuni giorni sotto lo sferza della pioggia che ne deturpa le fattezze. Poi, ultimo atto della tragedia ormai consumata, vengono a prelevarli da quel mattatoio a cielo aperto. Non una barella per loro, sia pure intrecciata di semplici rami: trascinati come una orripilante preda di caccia lungo l’impervio sentiero, sistemati alla meglio su una camionetta, sono trasportati al cimitero di Luino. Lì, finalmente, mani pietose possono ricomporli nella pace della morte e consegnarli, insieme ad una riconquistata dignità, alle rispettive famiglie. I superstiti invece vengono momentaneamente rinchiusi sotto custodia nella cantina della casa. È ormai mezzogiorno. Gli otto partigiani risparmiati, con le mani alzate sfilano a piedi nudi per le vie di Voldomino Inferiore, guardati con tremore dalle finestre socchiuse. Particolarmente toccante l’incontro tra Flavio Fornara e la sua mamma. Poi la triste marcia prosegue. Giunti a Brissago altri cinque ragazzi: Giampiero Albertoli, 24 anni, di Castelveccana, Dante Girani, 20 anni, di Montegrino, Flavio Fornara, 23 anni, operaio di Omegna stabilitosi a Luino, Luigi Perazzoli, 23 anni, di Milano, Sergio Lozio, 18 anni di Treviglio, vengono condotti a viva forza verso il cimitero. La soldataglia fascista vuole dare una dimostrazione di forza, là dove è stato ucciso il podestà Cesare Bonfiglio. Questa volta però l’ultimo desiderio dei condannati a morte viene esaudito. Tutti vogliono un prete, un prete che li confessi e li comunichi. Si manda a chiamare il parroco di Brissago, don Paolo Balconi che racconterà i loro ultimi istanti di vita in una toccante testimonianza. Don Balconi, in cotta e stola, scortato dai militi della brigata nera, si accosta ad ognuno di loro. Appoggiati ai grossi ippocastani del cimitero, i cinque giovani in ginocchio si confessano e ricevono il Viatico. Giampiero Albertoli, formula un’ultima richiesta: «Signor Curato, dica a quelli che ci stanno per fucilare che noi perdoniamo anche a loro». Quindi, seduti con la schiena rivolta al plotone di esecuzione e le mani legate alla spalliera della sedia, gli occhi rivolti al Crocifisso, tenuto in alto dal sacerdote accanto a loro, ripetono alcune giaculatorie che non hanno il tempo di terminare. Una raffica di mitra li investe: tre giacciono col viso a terra e i due che si agitano ancora nelle estreme convulsioni della morte vengono finiti dal comandante con la rivoltella. Mentre gli assassini si allontanano, il parroco amministra loro l’estrema unzione. Ma la mattanza non è ancora finita. La colonna dei prigionieri si dirige verso Varese. E’ ormai passato mezzogiorno, i soldati hanno fretta e fame. Rimangono tre vittime designate: Elvio Copelli, 19 anni di Voldomino, Luigi Ghiringhelli, figlio del capo stazione di Luino, 20 anni, Evaristo Trentin, 23 anni di Clivio. Giunti in prossimità dell’Ippodromo delle Bettole, uno di loro, presagio della fine imminente, ha un ultimo sussulto: «Non vogliamo morire!». Secondo le carte dell’Archivio Mongodi, sarebbe stato il parroco di Biumo Superiore, don Pierluigi Citterio ad assistere negli ultimi momenti i tre sventurati. In proposito v’è però la testimonianza di don Giuseppe Tornatore, riportata nel libro di Franco Giannantoni «I giorni della speranza e del castigo». Originario di Roreto di Cherasco, classe 1879, figlio di un medico di Bra, don Tornatore, ordinato sacerdote, fu per qualche tempo vicecurato a S. Vittoria d’Alba; quindi si trasferì a Cuasso al Monte al seguito del carmelitano Padre Gerardo Beccaro, che aveva già incontrato quand’era adolescente, per dedicarsi ai ragazzi ricoverarti presso l’Ospizio dei Piccoli Derelitti fondato da quest’ultimo. Fondò, a sua volta, altri istituti, a Biumo Superiore, Viggiù (1921) e a Milano (1924). Cappellano militare nella I Guerra Mondiale presso il comando della III Armata, fu decorato al valore. Fu proprio lui il 7 agosto 1945 a scrivere questa toccante testimonianza: «[…] Il 7 ottobre [1944] tornavo da Varese, diretto alla mia residenza, quando una giovane donna, tremante e sconvolta, con voce e gesti concitati mi avvertiva che dinanzi all'ippodromo tre patrioti stavano per essere fucilati. Affrettai il passo verso il luogo indicato e consultai l'orologio: erano le 18.[…] Chiesi allora il permesso di portare la mia parola di sacerdote ai tre condannati facendomi forte della mia qualità di ex cappellano: un milite, che disse di conoscermi, accondiscese. I tre partigiani stavano appoggiati al muricciolo di cinta della proprietà Aletti. I tre disgraziati, che erano stati sorpresi nel sonno nel loro rifugio montano, erano a piedi scalzi, senza giubba e cappello, due con i calzoni corti: gli occhi infossati, i visi pallidi erano di una eloquenza angosciosa […], facevano parte della banda Lazzarini […]. I minuti erano contati, dopo aver rivolto alcune parole di conforto ad uno ad uno, abbracciai i poveretti e quindi ne ascoltai le confessioni […]. Le mie semplici e paterne parole seppero portare nel cuore dei tre poveretti sollievo e rassegnazione. I due più giovani accolsero con spirito veramente cristiano il pensiero della morte vicina, ma il Trentini, era in preda ad un nervosismo estremo che non gli permetteva di pronunziare parole. […] Imbruniva: il tempo concessomi era terminato. Fu dato l'ordine di legare le mani dietro il dorso ai tre giustiziandi e di accompagnarli di fronte, sul prato adiacente il tennis. Rimasi vicino ad essi fino all'ultimo istante e, quando già il plotone di esecuzione schierato in linea si disponeva a puntare i mitra contro le tre giovani schiene, una voce si elevò, straziante, a richiamarmi: "Cappellano, cappellano!" Era il Trentini. Pregai i militi di concedermi ancora qualche istante e mi portai sullo spazio erboso dove i tre giovani attendevano la ingiusta e fratricida morte. E fu sotto il tiro dei mitra che ascoltai le ultime raccomandazioni del poveretto, tormentato dal pensiero del tenero nipotino e della giovane madre. "Coraggio, ragazzi! - fu l'ultima mia esortazione - volgete lo sguardo al Santuario della Madonna del Monte che vi sta di fronte" […] . E dopo aver suggerito una giaculatoria mi ritrassi ponendomi al lato del plotone […] . Mentre alzavo la mano benedicente, una scarica terribile colpì i tre partigiani che caddero riversi, contemporaneamente, come alberi schiantati da improvvisa bufera. I tre poveretti giacevano sull'erba, tra rigagnoli di sangue e colpi di mitra ancora squarciavano le giovani carni, ne laceravano i polpacci: il Trentini ebbe asportato un occhio. Non potei non esclamare: "Basta, ormai sono morti!" […]. Il plotone si allontanava intonando canzoni, mentre la massa di popolo si rovesciò sul piazzale e venne accanto alle vittime mormorando parole di pietà e di esecrazione. Fino a tarda notte una pietosa processione sostò dinanzi alle salme, e mani anonime le coprirono di fiori […]. Mentre mi preparavo a tornare al mio istituto, uno sconosciuto mi si avvicinò e, dichiarandosi partigiano, mi espresse la sua gratitudine per quello che avevo fatto […]. La terribile giornata si chiuse […] e quella notte si scatenò un furioso temporale tra scrosci di pioggia torrenziale. Insonne, pensavo ai tre cadaveri, in balia dei cani randagi, sotto quel diluvio […]. Tre giorni i cadaveri rimasero esposti sulla pubblica strada, finché dopo la mia protesta in Prefettura, vennero rimossi e trasportati all'obitorio di Belforte. Due giorni dopo, dal Comm. Duca, questore di Varese, ebbi l'autorizzazione di benedire le salme che venivano sepolte […]». Sembra peraltro che don Tornatore avesse chiesto ripetutamente ai carnefici di essere sacrificato lui al posto dei tre partigiani, ma le sue suppliche non furono esaudite.
A cura di Emilio Rossi
1 Franco Giannantoni " I giorni della speranza e del Castigo", Emmeffe Edizioni - Varese, 2013, pag. 319 e 320