Voci della seconda guerra mondiale

EMILIO, BRUNO, GIOVANNI ADREANI E LUIGI MERONI NEL RICORDO DI ZAVERIA


Emilio Andreani

Zaveria Adreani ci riceve nella casa paterna, all’incrocio tra le due vie più importanti di Cunardo, dove fino a pochi anni fa gestiva una merceria, vero e proprio punto di snodo della vita del paese.
Una casa linda e pulita che ha conservato la sua austera semplicità.
Qui ha custodito il profumo dei ricordi, nella tortile vite che si aggrappa al pergolato antico e si riveste di foglie a primavera e di grappoli mielosi nel tepore settembrino.
Il giardino si ripropone nella bella stagione con gli stessi intensi colori di sempre e le fragranze, buone per la cucina.
Vigile custode di un tempo andato, Zaveria ricompone un puzzle che gli anni hanno tentato di frantumare con l’inesorabile forza demolitrice dell’oblio.
Elegiaca rievocazione delle vicende di una famiglia, come tante altre, smembrata dalle guerre di regime.
Una storia però a lieto fine, come tutte le belle storie che si rispettino.
La memoria non le fa difetto.
Parla con la lucida consapevolezza, scolpita nel profondo dell’animo dalle ansie e dalle angosce che hanno rattristato la sua adolescenza.
Tre fratelli, chiamati uno dopo l’altro a servire la patria, e lei rimasta sola accanto ai genitori a condividere la logorante attesa di un loro improbabile ritorno.
Emilio, classe 1911, dopo aver prestato servizio di leva all’Autocentro di Milano, fu richiamato nel 1935 per la guerra d’Etiopia.
Appassionatissimo di meccanica, aveva appena aperto un garage a Varese, quando venne mandato in Eritrea.
Al termine del conflitto, però, dopo un breve rientro a casa, volle tornare ad Asmara per impiantare anche là un’officina meccanica.
Una sorta di mal d’Africa che l’aveva contagiato.
Nel ’40, ancora una volta, fu richiamato e destinato ad operazioni militari nello stesso continente africano.
Catturato dagli Inglesi, fu deportato in un campo di concentramento in Kenya.

Bruno Andreani - primo a sinistra

Durante la notte, raccontava, non riusciva a dormire.
Non si trattava però di insonnia, ma dei morsi della fame che non gli concedevano tregua.
La situazione migliorò quando un me dico, originario di Masnago, lo chiamò a collaborare con lui come aiuto infermiere.
Erano intanto trascorsi diciotto mesi senza che la famiglia ricevesse sue notizie.
Sarà vivo o morto? Si domandavano tutti in un crescendo di preoccupazioni.
Zaveria, in quel tempo, eravamo nel 1941, frequentava l’Educandato di Roggiano come alunna interna e quel silenzio diventava giorno dopo giorno motivo di grande avvilimento.
L’attesa del postino riaccendeva quotidianamente le speranze, ma invano.
Il padre aveva interpellato perfino la Croce Rossa, senza alcun esito.
Giunse finalmente la sospirata lettera: Emilio era vivo.
Ma qualche giorno più tardi la Croce Rossa lo diede per disperso.
Per fortuna quella lettera attestava il contrario, altrimenti la madre sarebbe morta di crepacuore.
Fece ritorno a casa solo nel novembre del 1946.
Gli Inglesi, infatti, non disponevano di un numero sufficiente di navi per rimpatriare tutti i prigionieri in breve tempo.
Dovettero pertanto scaglionare i rientri.

Giovanni Andreani

Emilio è morto all’età di 90 anni, nel 2001.
Bruno, classe 1912, secondo Zaveria, fu, si fa per dire, il più fortunato.
Destinato all’inizio della guerra al Battaglione Intra, venne per breve tempo inviato in Francia e successivamente in Garfagnana a presidiare la linea gotica fino all’8 settembre.
L’annuncio dell’armistizio provocò un fuggi fuggi generale.
I soldati, privi di figure di riferimento e di ordini attendibili, cercavano con ogni mezzo di ritornare a casa.
Durante il tragitto lungo le strade della Garfagnana, si imbatterono in un contadino.
Era un individuo sospetto o ci si poteva fidare? Un nodo gordiano che fu subito spezzato da una sua domanda perentoria: «Siete soldati in fuga?».
Alla risposta affermativa, l’uomo gettò la maschera e indicò loro l’itinerario da percorrere: «Cercate solo di evitare i luoghi aperti e facilmente individuabili.
Procedendo nella direzione che vi ho indicato, giungerete in una località dove scorgerete un prete intento a leggere il suo breviario.
Avvicinatevi senza chiamarlo, mostratevi solamente, lui vi fornirà le informazioni necessarie».
Tutto avvenne secondo copione.
Il sacerdote in questione indicò loro dove si trovavano i binari della ferrovia.
Al sopraggiungere di un treno merci sarebbero dovuti salire sugli ultimi due vagoni aperti: il convoglio li avrebbe portati fino a Milano senza soste intermedie.

Bruno Andreani - primo seduto a sinistra

Tornato a casa, si rifugiò in Svizzera, attraverso il valico di Ponte Tresa, insieme a molti altri militari fuoriusciti, provenienti da ogni dove, che si erano dati appuntamento in località Raglio di Cunardo.
Fu ospite di una famiglia elvetica di Bätterkinden che gli riservò un trattamento molto umano.
Avrebbe voluto salire in montagna e unirsi alle formazioni partigiane, ma ne fu dissuaso dal padre che riteneva impraticabile e troppo rischiosa una soluzione del genere.
È morto nel 2001.
Giovanni, classe 1920, prestò servizio di leva nell’Autocentro di Torino.
Dopo un periodo di addestramento, venne mandato in Russia fino al 1943.
Una vita da cani, alle prese con il freddo, la fame e i disagi causati da un’imperdonabile disorganizzazione.
I soldati era no costretti ad indossare indumenti non adeguati alle rigide condizioni climatiche della pianura russa, un mare bianco di neve, attraverso il quale dovettero affrontare in seguito le difficoltà di una difficile ritirata.
Raccontava che avevano comunque trovato persone disposte ad ospitarli, come una famiglia che gli aveva offerto un giaciglio in un soppalco, riscaldato dal sottostante camino.


Un’altra volta, erano stati ospitati in un casermone.

Luigi Meroni

Si trattava forse di un edificio scolastico dismesso.
Un particolare però li colpì immediatamente: in tutti i locali il pavimento era coperto da circa 50 cm di carta.
Forse, pensarono, in mancanza della paglia, era stata accatastata per creare un sostrato destinato ai loro giacigli.
Si sbagliavano.
Dopo circa due ore, mentre erano ancora immersi nel sonno, furono svegliati da grida di allarme «il fuoco, il fuoco!».
Uscirono a gambe levate ed a mala pena, quasi miracolosamente, si salvarono.
Un giorno smarrirono anche la rotta, un disorientamento che sarebbe potuto diventare fatale, se un aereo non avesse indicato loro il percorso.
Avanzavano faticosamente con la neve che arrivava fino alle ginocchia.
Stremati, avrebbero voluto fermarsi, ma per loro sarebbe stata la Giovanni Adreani, primo seduto da sinistra fine.
Lo attestavano i cadaveri ibernati disseminati lungo il cammino.
Uno sfinimento mortale, anche perché il cibo, le poche patate a loro disposizione, scarseggiava, ma bisognava lottare a denti stretti per uscire da quell’inferno di ghiaccio.
Molti purtroppo non fecero ritorno alle loro case.
Erano dati in genere per dispersi, come un amico di famiglia, rimasto prigioniero in Russia e ricomparso improvvisamente come un fantasma quando ormai più nessuno avrebbe giurato su un suo possibile rimpatrio.
Raccontava inoltre di essere stato adibito a degli estenuanti lavori nel taglio dei boschi.
Il cibo era scarso, i prigionieri riuscivano a mala pena a reggersi in piedi e la dissenteria mieteva quotidianamente una moltitudine di uomini.
Una vera ecatombe.
Lui, invece, si era salvato grazie al suggerimento apparentemente insensato di un russo che gli ripeteva: «Mangia il carbone! Mangia il carbone!» Masticando carbone, infatti, aveva evitato la dissenteria.
Giovanni, tornato finalmente a casa, fu destinato ad una missione in Sicilia, e precisamente a Sciacca.
Gli Italiani avrebbero dovuto impedire lo sbarco delle truppe alleate, ma gli Americani li fecero immediatamente prigionieri e li caricarono su una nave diretta negli Stati Uniti.
La firma dell’armistizio li indusse però ad invertire la rotta.
Fu pertanto sbarcato in un campo di lavoro in Algeria dove rimase fino al 1945.
Giovanni è morto nel 1995 all’età di 75 anni.
Erano ricordi sui quali i fratelli preferivano glissare.
Rappresentavano, infatti, una dolorosa pagina della loro vita che avrebbero voluto volentieri rimuovere.
Ma anche del marito, Luigi Meroni, classe 1920, Zaveria ricorda le disavventure.
Richiamato nel genio radiotelegrafisti, fu inviato nel clima incandescente di una Iugoslavia in rivolta, fino all’8 settembre ’43.
Da Spalato, su carri bestiame, venne deportato nello stammlager VI G a 20 km da Bonn, un campo di smistamento verso una serie di sottocampi in cui i prigionieri venivano impiegati in varie attività lavorative al servizio del terzo Reich.

Luigi Meroni sul un carro armato

A lui toccò purtroppo il duro lavoro nelle viscere della terra, in una miniera di carbone a 700 m di profondità, dodici ore al giorno, per diciotto mesi, una lunga interminabile notte, senza stelle.
Una nutrizione di pura sussistenza, dove le bucce di patata erano ritenute un’ambita prelibatezza.
Il cunicolo in cui si svolgeva l’attività estrattiva era spesso soggetto a smottamenti, che talvolta travolgevano gli occupanti, seppellendoli sotto uno strato di terra.
Un giorno, mentre stavano per entrare in miniera, dal cielo incominciò a cadere una gragnola di bombe.
Tutti i compagni si slanciarono verso destra, mentre una mano invisibile lo sospinse violentemente a sinistra.
Luigi ripeteva sempre di avervi ravvisato l’intervento della nonna defunta.
Fu, infatti, l’unico sopravvissuto.
Nel mese di maggio del 1945 giunsero i Russi e gli Americani liberatori.
Questi ultimi recavano grandi quantità di cibo, ogni ben di Dio, che mettevano a disposizione dei prigionieri.
Ad alcuni non sembrava vero di poter disporre di tanta grazia: si abbuffarono perciò oltre misura, ma dopo un così lungo periodo di forzato digiuno, ne risentirono a tal punto da lasciarci la pelle.
Solo nel luglio del 1945, comunque, poté fare ritorno nella sua Cunardo.
Si celebrava in quei giorni la festa per i 60 anni di sacerdozio del prevosto don Antonio Santamaria.
Luigi pesava 38 kg, era ridotto a pelle ed ossa e neppure la futura moglie Zaveria fu in grado di riconoscerlo.
I genitori di Luigi avevano fatto un voto: la costruzione di una grotta di Lourdes sotto la chiesa parrocchiale.
Non mancarono alla promessa.

Luigi Meroni

Luigi Meroni è scomparso nel gennaio 2008.
La narrazione di Zaveria si conclude col racconto di una curiosa vicenda.
Quando nel ’35 Emilio dovette partire per la guerra d’Africa, il corso di disegno serale, organizzato presso le scuole di Cunardo, rischiò di dover chiudere i battenti.
Il professore risiedeva a Marchirolo e, dal momento che la famiglia Adreani era l’unica in paese a possedere una macchina, era stato Emilio ad assumersi l’incarico di andarlo a prendere e di riportarlo ogni sera a casa.
Quale soluzione si sarebbe potuta adottare in alternativa? L’unico in famiglia in grado di espletare tale incarico era il fratello Giovanni.
E fino a qui nulla da eccepire.
Un solo particolare: Giovanni aveva solo 15 anni.
Ci si adoperò allora per ottenere dai carabinieri un permesso speciale, che, al di là di ogni ragionevole aspettativa, fu invece accordato.
Per merito dunque di un autista quindicenne, il corso di disegno poté felicemente concludersi.
Luigi Meroni

Da sinistra a destra in piedi: Luigi Meroni, Francesco Pachinetti, Giovanni Adreani con il foulard, dietro Gino Adreani (in seguito reduce dalla Germania), Giuseppe Giudici (in seguito reduce dalla Russia), Paolo Barni (col cappellino), Domenico? Giroldi (solo la testa), Carlo Cardoni.
In basso da sinistra a destra: Domenico Giroldi?, Piero Montecucco (in seguito disperso in Russia), Giuseppe Pecorari (in seguito deportato in Germania)


by Emilio oliba