I POVERI PARTIGIANI DELLA GERA

 

Don Marco Baggiolini

 

La testimonianza di don Marco Baggiolini

 

Nell’archivio della famiglia Baggiolini-Garibaldi, coinvolta nella drammatica vicenda della “Gera”, è emersa questa significativa testimonianza di don Marco Baggiolini, appresa dalla viva voce di mamma Maria, di papà Duilio, delle sorelle e dei fratelli

Fogli di testimonianza di don Marco Bagiolini



LISTA CAPITOLI


§ 1   L’ASSALTO DEI TEDESCHI E REPUBBLICHINI ALLA CASCINA GERA
§ 2   LA DEVASTAZIONE DELLA CASA
§ 3   ALLA RICERCA DI PAPA’ DUILIO
§ 4   UN ATTO GENTILE
§ 5   LA PRIMA ESECUZIONE
§ 6   L’INCENDIO DELLA STALLETTA
§ 7   SECONDA STRAGE DI BRISSAGO VALTRAVAGLIA
§ 8   L’ULTIMA STRAGE ALLE BETTOLE DI VARESE

 

 

Introduzione

La Madonna del partigiano ci aiuti!
“Siamo qui a chiedere perdono a questi nostri fratelli morti per noi!” Così nel trentesimo del loro sacrificio, il parroco di Voldomino a noi tutti.
Era la mattina del 7 ottobre 1944.
Una mattina piovosa.
Un gruppo di nostri figliuoli, due di Voldomino, uno di Montegrino altri di Luino, uno da Lucca, tre di Castelveccana o da altre parti dormivano nella piccola stalla a 100 m dalla casa della Gera.
Solitamente passavano la notte nelle trincee, di cui tutta la montagna è cosparsa, residuo della guerra 1914-18.
Ma quella sera avevano visto il tempo tanto brutto.
Era sabato, il primo sabato del mese, giorno sacro alla Madonna del Rosario. Ed il Rosario questi figliuoli erano soliti dirlo tutte le sere, ritrovandosi per un piatto di minestra calda per scambiare due parole in casa di Duilio Garibaldi e di mamma Maria.
C’era sempre a dare tono ed allegria Giacomo Albertolli di Castelveccana.
C’era il capitano Lazzarini, c’erano di Voldomino Copelli Elvio e Fornara Flavio.
Il capitano Lazzarini quel tragico mattino non era con i suoi: con un drappello fidato era partito prestissimo per una esplorazione su verso Montegrino.
Nella stalletta i nostri erano armati ma altra scappatoia non avrebbero avuto che la piccola porta o il buco del fieno: la piccola finestra era difesa da robusta inferriata.

 

 

L'assalto dei repubblichini alla cascina Gera

Ci fu una spia?
Bisogna pensarlo, perché al mattino, verso le 7,30, mentre appena albeggiava, due camion di tedeschi e repubblichini vennero da Varese e si fermarono a 3 km sullo stradone Varese-Luino, si portarono sotto il monte Sette Termini, sulle cui pendici è la Gera e strisciando circondarono la stalletta e la casa (la Gera).
Sul fienile un partigiano faceva da guardia.
Non li vide?
Era d’accordo coi nemici?
Di fatto i tedeschi arrivarono e nessun segnale d’allarme fu dato.
I tedeschi ed i repubblichini si presentarono alla porta della stalla ed intimarono la resa.
Gli assediati pensarono inopportuno usare anch’essi le armi, chiusi com’erano in una vera gabbia da cui era impossibile uscire.
Furono tolti: 13 in tutto.
Uno, ferito, dormiva in casa (alla Gera).
In casa quella notte c’era anche la moglie del capitano Lazzarini.
C’era mamma Maria, la figlia Rosetta sui 16 anni.
Papà Duilio quel mattino si era recato all’officina, (la ditta Verbano), mezz’ora prima del solito e fu provvidenza di Dio!
Anche l’altra figlia Lina era assente perché si era recata a Laveno per un matrimonio di una sua amica.

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La devastazione della casa

Mamma Maria e Rosetta, verso le 7,30, sì svegliano bruscamente.
Qualcuno bussava con violenza alle porte.
Sul tetto della casa già scoppiava qualche bomba a mano lanciata dagli assedianti.
La casa fu presa d’assalto.
Tutto il raccolto, il mobilio, i cassetti pieni di biancheria: tutto fu portato fuori da caricare sul camion che attendeva in via Gorizia e che doveva trasportare tutto a Varese.
Mamma Maria, calma ed esterrefatta, stava a guardare, seduta in cucina presso il grande camino.
In cantina furono aperte le spine alle botti di vino: sul pavimento della cantina ci fu presto vino fino ad un livello di un 15 cm!
Buttavano giù dalle finestre superiori sul cortile antistante le noci.
Portarono via il pianoforte, la mucca.
Adoperarono le lenzuola rimaste di Lina che presto doveva sposarsi per portar giù le patate, i soli mobili, (privi di cassetti usati per portar giù biancheria).
Furono trascinati al piano ed abbandonati in piazza a Voldomino davanti alla chiesa.
In casa rimasero (erano 12 locali per l’esattezza) tre cose: una meravigliosa cappellina in traforo con dentro un bel Sacro Cuore, un tableau con le foto dei Caduti di guerra: un colpo di baionetta aveva rotto il vetro e mutilata la figura del re; un elmetto da soldato ricordo degli otto anni di guerra di Papa Duilio.

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Alla ricerca di papà Duilio

Erano forse le 9,30.
I militi avevano cercato dappertutto per rintracciare il capo di casa, Garibaldi Duilio.
Erano stati persino in chiesa a frugare nei confessionali.
A Voldomino il parroco don Piero Folli non c’era: era in prigione lui pure, a San Vittore a Milano, fin dal 3 dicembre 1943.
Ad un certo punto mamma Maria si trovava appena fuori dalla porta del fienile, nella parte dietro la casa, osservando i soldati che portavano fuori i cassetti ripieni.
Vede che passa a poca distanza zia Rina, la cui abitazione è 100 m più in basso alla Gera.
Andava col gerlo in spalla, su verso i suoi poderi.
Come aveva fatto a passare il cordone di guardia?
Nessuno l’aveva vista.
Mamma Maria non perde tempo: “Rina cerca un uomo e di’ che corra a Luino ad avvisare Duilio che scappi: ci sono i tedeschi in casa!”.
Come fece zia Rina a tornare sui suoi passi?
Come venne se ne tornò inosservata ed una donna volò subito in bicicletta alla ditta Verbano ad avvisare Duilio.
Questi non esitò un istante: consegnò ad un garzone la sua bicicletta perché la facesse uscire dalla porta e la recasse giù sotto il muro verso Germignaga.
Lui saltò il muro di cinta ed inforcata la bicicletta via alla volta di Castelveccana, dove c’era la famiglia degli Albertoli.
A mamma Maria dunque si avvicinarono alla fine i soldati e le dissero senza preamboli: “Alla fine dov’è vostro marito?”
Mamma Maria pensò un istante: è già mezz’ora che Rina è partita con la risposta.
A quest’ora qualcuno sarà già arrivato in stabilimento.
Rispose con semplicità: “Lavora a Luino, all’officina San Vito, (oggi Verbano)”.
I soldati si precipitarono ma non trovarono che la gabbia vuota: la preda era sfuggita!
Misero una taglia di 50.000 lire a chi avesse consegnato Garibaldi vivo o morto!
50.000 lire d’allora!

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Atto gentile

Quando ancora mamma Maria si trovava seduta al focolare, un milite le mise davanti la fotografia di un prete.
L’aveva trovata durante il saccheggio: “Chi è questo?
“È mio figlio!” rispose con la solita semplicità e franchezza mamma Maria.
“Lo conosco! - disse il milite - ho per lui della riconoscenza”.
Da quel momento il soldato si pose a sedere accanto alla donna.
La difendeva dagli insulti degli altri.
Scesi al camion, la aiutò gentilmente a salire.
Come a Gesù che nel calvario non mancò l’umile conforto del Cireneo e della Veronica.

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Prima esecuzione

Erano verso le 11.
Un secco crepitare di mitraglie giunse alle donne dalla vicina stalletta, si guardarono in faccia esterrefatte.
Che era successo? Strappati dal loro ricovero i partigiani furono interrogati.
Il sottotenente Perazzoli poté dire a sua discolpa: “Ho fatto la guerra e ne ho riportate 14 ferite”.
“Ah sì?” risposero quelli e gli diedero 14 schiaffi.
Giacomo Albertoli il più allegro di tutti fu il più seviziato, dopo la fucilazione fu quasi impossibile riconoscerlo agli stessi suoi cari.
Copelli e Fornara furono fatti passare con gli altri a mani alzate per le vie di Voldomino.
Ma si può condannare uno senza prima ascoltare o fare il processo?
Alla Gera non ci fu alcun processo: quattro dei 13 ostaggi furono messi contro la roccia della montagna.
Una scarica di mitra ed i quattro furono finiti!
Le mamme non c’erano?
C’era una mamma, Maria, la mamma del partigiano, presente anche se non vista a raccogliere lacrime e sangue.
Un fatto inspiegabile e perché no soprannaturali: mamma Maria stava osservando in casa tutto quel finimondo.
Vide una statuetta di Sant’Antonio di Padova e le fu spontaneo un gemito: “Sant’Antonio salvami almeno la casa!”
Attorno alla casa i militi avevano già poste alcune cassette di dinamite.

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Incendio della stalletta

Alla stalletta diedero fuoco e la stalla bruciò per due giorni.
Per la casa avrebbero fatto saltare la dinamite.
Erano già ormai le 13: i soldati stanchi ed affamati.
Il marito di zia Rina sentì un milite dire all’ufficiale: “E le cassette della dinamite?”
Non si erano ricordati di farle saltare.
Risalire?
Era tardi.
L’ufficiale diede una scrollata di spalle e la casa rimase in piedi.
Grazie Sant’Antonio! Verso le 13,30 mamma Maria e Rosetta furono caricate coi partigiani rimasti e tutto il bottino.
Partirono verso Varese.

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Seconda strage di Brissago Valtravaglia

Brissago Valtravaglia era stato ucciso il podestà.
Per rappresaglia là bisognava uccidere un p’ di partigiani.
Ne furono presi 5.
Li misero contro il muricciolo esterno del cimitero.
Chiesero: “Noi vogliamo il prete, perché dobbiamo morire!”
Accorse il parroco don Paolo Balconi.

Li assolse e comunicò.
Qui la cosa più sublime è vera gemma di tutto il racconto.
Giampiero Albertolli, cugino di Giacomo, fece cenno, già legato, di avere ancora qualcosa da dire.
Sussurrò a don Paolo: “Dica a quelli che mi stanno fucilando che io perdono anche a loro”.
Era giovane di Azione Cattolica.

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L'ultima strage alle Bettole di Varese

A Varese gli ultimi tre furono portati nel piccolo prato antistante lo stadio delle Bettole.
Il parroco di Biumo Superiore, don Enrico Alberio, venne a dare loro l’assoluzione: “Ma noi non vogliamo morire” dicevano piangendo.
Furono mitragliati.
Erano Elvio Copelli, Trentini Evaristo, Ghiringhelli Luigi.
Una piccola lapide ancora ricorda i loro nomi gloriosi.
E mamma Maria e Rosetta?
Rimasero in carcere a Varese: “Il Signore c’è anche qui!” diceva con gran fede mamma Maria.
Rosetta talora cantava le litanie della Madonna.
E papà Duilio?
Rimase tre settimane nascosto dentro il faro della Rocca di Caldè.
Poi passo a Milano presso la figlia: la portinaia era una spia delle SS.
Tornò di nascosto a Caldé.
Il parroco gli recava il cibo di nascosto.

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